Toth Bancadati - Cinema
Christian Metz
Cinema e letteratura
Il problema dell’espressività filmica
Cinema e letteratura. Il problema dell’espressività filmica Il cinema non è una lingua perché contravviene a tre importanti caratteristiche del fatto linguistico: una lingua è un sistema di segni destinato all’intercomunicazione. Tre elementi di definizione. Ora, il cinema, come le arti, e proprio perché è una di queste, è una « comunicazione » a senso unico; è infatti molto più un mezzo di espressione che non di comunicazione. È, come abbiamo visto, solo in parte un sistema. Infine, non impiega che pochissimi segni veri e propri. Certe immagini di cinema che un uso durevole in funzione di parola ha finito per fissare in un senso convenzionale e prestabilito, diventano una sorta di segni. Ma il cinema vivo le aggira e lo si comprende lo stesso : vuol dire quindi che il nerbo del meccanismo semiologico è altrove. L ’immagine è sempre in primo luogo un’immagine, riproduce nella sua letteralità percettiva lo spettacolo significato di cui essa è il significante; perciò, essa è a sufficienza ciò che mostra per non doverlo significare, se si intende questo termine nel senso di signum facere, fabbricare appositamente un segno. Molte caratteristiche oppongono l’immagine filmica alla forma preferita che assumono i segni, arbitraria, convenzionale, codificata. Si tratta di altrettante conseguenze che derivano dal fatto che fin dall’inizio l’immagine non è l’indicazione di qualcosa d’altro all’infuori di se stessa, ma la pseudo-presenza di ciò che essa stessa contiene. Lo spettacolo filmato dal cineasta può essere naturale (film « realistici », riprese per strada, cinema-verità ecc.) o predisposto (film-opere di EjzenStejn dell’ultimo periodo, film di Orson Welles, e più in generale tutto il cinema irrealistico o fantastico o espressionistico ecc.). M a fa lo stesso. J1 soggetto del film può essere « realistico » o no; il film, da parte sua, non mostra in ogni caso che ciò che mostra. Ecco dunque un cineasta, realista o no, che ha filmato qualcosa. Che cosa sta per prodursi? Lo spettacolo filmato, naturale o artificiale, disponeva già di espressività propria, in quanto era in definitiva un frammento del mondo e in quanto quest’ultimo ha sempre un senso. Le parole da cui parte il romanziere hanno anch’esse un senso preesistente, in quanto sono frammenti della lingua, la quale significa sempre. È uno stato di grazia riservato alla musica e all’architettura quello di poter dispiegare di primo acchito la loro espressività propriamente estetica — il loro stile — in un materiale (qui la pietra, là il suono) puramente impressivo e che non designa nulla. Ma la letteratura e il cinema sono per loro natura condannati alla connotazione, in quanto la denotazione viene sempre prima della loro impresa artistica. Il film, come il linguaggio verbale, è suscettibile di impieghi puramente veicolativi dai quali è assente ogni preoccupazione artistica, e su di cui regna unicamente la designazione ( ~ denotazione). Cosi l’arte del cinema, come l’arte del verbo, viene spostata di un grado verso l’alto: è in ultima analisi attraverso la ricchezza delle connotazioni che il romanzo di Proust si distingue — semiologicamente parlando — da un libro di cucina, che il film di Visconti si distingue da un documentario chirurgico. Mikel Dufrenne prospetta che in ogni opera d’arte il mondo rappresentato non costituisce mai l’essenziale di ciò che l’autore « aveva da dire ». È uno stadio preparatorio; nelle arti non-rappresentative fa perfino difetto: l’arte della pietra e l’arte del suono non designano nulla.
Quando è presente, non serve che a meglio introdurre il mondo espresso:m stile dell’artista, rapporto di temi e di valori, « accento » riconoscibile; insomma, universo del connotato.
C’è tuttavia una differenza importante, sotto questo profilo, tra la letteratura e il cinema. L’espressività estetica viene a trapiantarsi al cinema su di una espressività naturale, quella del paesaggio o del volto che ci mostra il film. Nelle arti del verbo, essa si trapianta non tanto su di una vera e propria espressività primaria, ma su di una significazione convenzionale ampiamente inespressiva, quella della lingua. Anche l’accesso del cinema alla dimensione estetica — espressività sopra espressività — si compie in condizioni di totale arrendevolezza : arte facile, il cinema è di continuo in pericolo di diventare vittima di questa facilità : com’è facile fare effetto, quando si ha a disposizione l’espressione naturale degli esseri, delle cose, del mondo! Arte troppo facile, il cinema è un’arte . difficile; non finisce mai di risalire la china della sua ' facilità. Ci sono pochissimi film in cui non vi sia un po’ di arte, pochissimi film in cui ve ne sia molta.
Quanto è più improbabile l’arte della letteratura — e soprattutto la poesia! Come dare buon esito a questo trapianto insensato; dotare di un’espressività estetica (e cioè in qualche modo naturale) le « parole della tribù » vituperate da Mallarmé, e in cui i linguisti sono concordi nel riconoscere una debole dose di espressività rispetto a una buona dose di significazione arbitraria, anche tenendo conto delle correzioni apportate dopo Saussure alla famosa teoria dell’« arbitrarietà » (presenza nella lingua di una motivazione parziale — fonetica, morfologica o semantica — messa in luce soprattutto da S.Ullmann; motivazioni attraverso il significante e altre « associazioni implicite » analizzate da Ch. Bally...; più in generale, studi vari sulle zone « motivate » del linguaggio).
Ma quando il poeta è riuscito a realizzare quest’alchimia primaria,il più è fatto: arte difficile, la letteratura dispone almeno di questa facilità.
La sua impresa è così scoscesa da essere meno minacciata dalle sue stesse chine. Vi sono molti libri in cui non c’è traccia di arte, ve ne sono alcuni in cui ce n’è molta.
La nozione di espressione viene qui assunta nel senso in cui la definisce M. Dufrenne. Vi è espressione quando un « senso » è in qualche modo immanente ad una cosa, si sviluppa direttamente da essa, si confonde con la sua stessa forma. Alcuni dei « sèmi intrinseci » di E. Buyssens rientrano forse in questo caso. La significazione, al contrario, congiunge dall’esterno un significante isolabile a un significato che è esso stesso — dopo Saussure lo si sa — un concetto e non una cosa.
Sono i « sèmi estrinseci » di E. Buyssens Un concetto si significa, una cosa si esprime. Essendo estrinseca, la significazione non può procedere che da una convenzione; essa è obbligatoriamente obbligatoria, in quanto renderla facoltativa equivarrebbe a privarla del suo unico sostegno, il consenso. È facile riconoscere qui la famosa thesis dei filosofi greci. Tra espressione e significazione, c’è più di una differenza: l’una è naturale, l’altra convenzionale; Tuna è globale e continua, l’altra suddivisa in unità discrete; l’una proviene dagli esseri o dalle cose, l’altra dalle idee. L’espressività del mondo (il paesaggio, il volto) e l’espressività dell’arte (la malinconia dell’oboe wagneriano) obbediscono essenzialmente allo stesso meccanismo semiologico : il « senso » si sviluppa naturalmente dall’insieme del significante, senza fare ricorso a un codice. È al livello del significante e del significante soltanto che si pone la differènza: lì, la natura (espressività del mondo); qui, l’uomo (espressività dell’arte).
Ecco perché la letteratura è un’arte a connotazione eterogenea (connotazione espressiva su di una denotazione non-espressiva), mentre il cinema è un’arte a connotazione omogenea (connotazione espressiva su di una denotazione espressiva). Bisognerebbe studiare entro questa prospettiva il problema dell’espressività cinematografica, e allora si dovrà necessariamente parlare di stile, dunque di autore. Vi è una celebre immagine di ¡Qué viva México! di Ejzenstejn, in cui sono rappresentati i volti torturati eppure pacati di tre peones sotterrati fino all’altezza delle spalle, e che i cavalli degli oppressori hanno calpestato. Perfetta composizione triangolare: firma ben nota del grande cineasta. Il rapporto denotativo ci consegna qui un significante (tre volti) e un significato (essi hanno sofferto, sono morti). È il «motivo», la «storia». Espressività naturale: sui loro volti si legge il dolore, nella loro immobilità la morte. A questo punto vi si sovrappone il rapporto connotativo, con il quale ha inizio l’arte: la nobiltà del paesaggio strutturato dal triangolo dei volti (— forma dell’immagine) esprime ciò che l’autore, attraverso il proprio stile, voleva farle « dire » : la grandezza del popolo messicano, la certezza della sua vittoria, prima o poi, un certo amour fou, da parte del nordico, verso questo splendore solare. Espressività estetica, dunque. Eppure, ancora « naturale » : è in maniera molto diretta che questa grandezza selvaggia e possente si sviluppa da una composizione plastica in cui il dolore si fa bellezza. Due linguaggi, perciò, coesistono in questa immagine, in quanto vi si ritrovano due significanti (là, tre volti in una distesa; qui, una distesa strutturata triangolarmente da questi volti) e due significati (là, sofferenza e morte; qui, grandezza e trionfo). Si noterà, il che è normale, che l’espressione connotata è più « vasta » delrèspressione denotata, e nel contempo dislocata in rappòrto ad essa. Si ritrova in funzione di significante della connotazione tutto il materiale (significante e significato) della denotazione: il possente e doloroso trionfo che connota l’immagine si esprime tanto attraverso i tre stessi volti (significanti della denotazione) quanto attraverso il martirio che si legge su di essi (significato della denotazióne). Il linguaggio estetico ha per significante la totalità significante-significata di un linguaggio primario (aneddoto, il motivo) che viene ad incastrarsi dentro di esso. È questa appunto la definizione della connotazione secondo Hjelmslev; è noto chb qùesto linguista non utilizza i termini « significante » e k significato », ma espressioni e contenuto (cenematica e pierematica). Ma per chi studia il cinema, la parola espressione è troppo preziosa (in opposizione a significazione) perché le si dia il senso di «significante», in quanto si approderebbe allora a una collisione polisemica molto scomoda; entro la nostra prospettiva, « espressione » non designa dunque il significante, ma il rapporto tra un significante e un significato, quando questo rapporto è « intrinseco ». Sarebbe pure possibile, nel caso delle semìe espressive, dire esprimente ed espresso, riservando « significante » e « significato » per i rapporti non-espressivi (significazione propriamente detta). M a si esita ad abbandonare termini così consacrati dall’uso, e, dopo Saussure, così legati a tante analisi capitali, come significante e significato. Si instaurano spesso paragoni tra il cinema e il « linguaggio » in cui l’identità di quest’ultimo è incerta e fluttuante. È ora la letteratura (arte del linguaggio), ora il linguaggio ordinario ad essere opposto al film; in questo ménage a tre, nessuno ci capisce più niente. L ’arte delle parole e l’arte delle immagini, abbiamo visto, si trovano sullo stesso piano semiologico; sono vicine di casa, al piano « connotazione ». Ma se si paragona l’arte del cinema al linguaggio ordinario, cambia tutto: i due concorrenti non abitano più stavolta allo stesso piano.
Il cinema incomincia là dove finisce il linguaggio ordinario: con la « frase », unità minima del cineasta e più alta unità propriamente linguistica del linguaggio. Non abbiamo più allora due arti, ma un’arte e un linguaggio (essendo quest’ultimo, nella fattispecie, il linguaggio). Le leggi propriamente linguistiche non hanno più corso davanti all’istanza in base alla quale più niente è obbligatorio, e la concatenazione diventa « libera ». II film incomincia di qui; in è di primo acchito là dove si collocano le retoriche e le poetiche. Ma allora, come spiegare una curiosa dissimmetria che confonde insidiosamente gli spiriti e rende cosi oscuri tanti libri? Dalla parte del verbale, i due piani si lasciano facilmente distinguere: linguaggio ordinario, letteratura. Dalla parte del fìlmico, si dice sempre « il cinema ». Certo, si possono distinguere i film puramente «utilitari», (documentari pedagogici, per esempio) e i film « artistici ». Ma si sente che c’è qualcosa che non va, e che questa distinzione non ha l’evidenza di quella che oppone il verbo poetico o teatrale alla conversazione che avviene per strada. Nulla vieta di cavillare sui casi intermedi che confondono le linee di demarcazione: i film di un Flaherty, di un Mumau, di un Painlevé, documentari (biologici o etnografici) e opere d’arte insieme. Ma sarebbe facile trovare nell’ordine del verbale molti equivalenti di questi casi limitrofi. L ’essenziale risiede dunque altrove. A dire il vero, non esiste un impiego totalmente « estetico » del cinema, in quanto anche l’immagine che più connota non può evitare di essere anche designazione fotografica. Al tempo in cui, assieme a Germaine Dulac, si sognava il « cinema puro », i film di avanguardia più irrealistici, i più votati alla preoccupazione esclusiva della composizione ritmica, rappresentavano pur sempre qualche cosa: nubi dalle forme cangianti, giochi di luce sull’acqua, balletti di bielle e pistoni. Non esiste neppure un impiego totalmente « utilitario » del cinema: l’immagine che denota connota ancora un po’. Il documentario didattico più piattamente esplicativo non potrà impedirsi di delimitare le proprie immagini e di organizzare la loro successione con qualcosa di simile a una preoccupazione artistica; quando un « linguaggio » non esiste del tutto, bisogna già essere un po’ artisti per parlarlo, anche male. Parlarlo, equivale in parte ad inventarlo. Parlare la lingua di tutti i giorni, equivale semplicemente ad utilizzarla. Tutto ciò dipende dal fatto che il cinema possiede una connotazione omogenea alla sua denotazione, entrambe ugualmente espressive. Al cinema si passa di continuo dall’arte alla non-arte, dalla non-arte all’arte. La bellezza del film obbedisce in parte alle stesse leggi della bellezza dello spettacolo filmato; in certi casi, non si sa più quale dei due sia bello, o quale dei due sia brutto. Un film di Fellini differisce da un film della marina americana (destinato ad insegnare alle reclùte| f’arte di fare i nodi) per il talento e per lo scopo, per ciò che vi è di più intimo nel suo meccanismo semiologico. I film puramente strumentali sono fatti come gli altri, mentre una poesia di Victor Hugo non è fatta còme una conversazione tra colleghi di ufficio. In primo luogo, Tuna è scritta, l’altra orale, mentre il film è sempre filmato. Ma non è tutto. È per via della connotazione eterogenea ( dar valore espressivo a parole di per sé inespressive) che si è creato questo fossato tra l’uso strumentale del verbo e il suo uso estetico. Di qui l’impressione di avere da una parte due realtà (linguaggio ordinario e letteratura) e dall’altra soltanto ima, « il cinema ». Di qui anche la veridicità in definitiva di questa impressione. Il linguaggio verbale viene usato di continuo, ad ogni istante. La letteratura, per esistere, suppone in primo luogo che un uomo scriva un libro, atto privilegiato e dispendioso che non è assimilabile alla quotidianità. Il film, sia esso « utilitario » o « artistico », è sempre come il libro, mai come la conversazione. Bisogna sempre farlo. Simile anche in questo al libro, e diverso dalla frase parlata, il film non implica una risposta diretta da parte di un interlocutore presente che possa replicare subito e nello stesso linguaggio; anche per questo il film è più espressione che significazione. Esiste un rapporto di solidarietà un po’ oscuro ma forse essenziale tra la comunicazione (rapporto bilaterale) e la significazione « arbitraria »; per contro, i messaggi unilaterali derivano spesso dall’espressione (non arbitraria), legame questa volta più facile da afferrare. Tramite l’espressione, una cosa o un essere ci consegnano ciò che hanno di più differente : un tal genere di messaggio non implica risposta. L’amore più armonioso non è un « dialogo », è un canto amebico. Ciò che Jacques dice a Nicole è l’amore di Jacques per Nicole; ciò che Nicole dice a Jacques, è l’amore di Nicole per Jacques. Non parlano dunque della stessa cosa, e si ha ben ragione di dire che il loro amore è « condiviso ». Non si rispondono; non sarebbe davvero possibile rispondere a chi si esprime. Il loro amore è diviso in due amori, che danno luogo a due espressioni. Ci è voluta una sorta di coincidenza — di qui la rarità della cosa — , e non il gioco delle influenze e degli arrangiamenti successivi, attraverso i quali si definisce un dialogo (o anche l’intesa che prolunga l’amore), perché, esprimendo due sentimenti differenti, essi si applicassero inconsapevolmente a quel tiro incrociato che è incontro e non dialogo, e che non aspira che alla fusione in cui si annullerà ogni dialogo. Come Jacques (senza Nicole) o come Nicole (senza Jacques), il film e il libro si esprimono, e non gli si risponde mai veramente. Se invece, usando il linguaggio ordinario, chiedo: « Che ora è? » e mi si risponde: « Le otto », io non mi sono espresso; ho significato, ho comunicato; mi hanno risposto. È dunque verissimo che rispetto al binomio letteratura / lingua, abbiamo un solo cinema, che assomiglia più alla letteratura che alla lingua.
(da Il cinema: lingua o linguaggio? , 1964)